Emergenza covid e diritto alla privacy: il tracciamento dei contagi e le notizie sui social.

L'emergenza covid ha posto il problema della privacy in ordine alla diffusione dei dati personali inerenti ai contagi da coronavirus.

La tutela della privacy delle persone contagiate dal covid, o ritenute tali, deve poi essere bilanciata con altri diritti di rango costituzionale quali il diritto alla salute e il diritto di cronaca .

Dall'inizio dell'emergenza sanitaria Covid si è assistito alla diffusione, tramite social network e applicazioni come Whatsapp e simili, di informazioni relative allo stato di salute di persone che si riteneva avessero contratto il coronavirus.

Con questo articolo ci chiediamo se tale diffusione costituisca o meno una violazione del diritto alla privacy e alla riservatezza di chi ha contratto il covid.

Possiamo cominciare col dire che nel caso dell'emergenza Covid occorre bilanciare da un lato il diritto alla privacy e alla riservatezza, e dall’altro il diritto di cronaca e il diritto alla salute.

Diritto alla privacy e covid

Con riguardo al diritto alla privacy, è ovvia la sussistenza di un interesse dei soggetti affetti da coronavirus a non rendere pubblica la loro condizione (o presunta tale), e delle famiglie di coloro che al coronavirus non sono sopravvissuti. Tutto ciò è acuito dalla natura di dati particolari ex art.9 del GDPR di quelli riguardanti la salute dell’interessato.

Il diritto alla privacy e alla riservatezza non è nominato espressamente in nessuna norma della nostra Costituzione, ed è stato solo a partire da due pronunce dei più alti organi giudiziari del nostro ordinamento - cioè la Corte Costituzionale (Sentenza Corte Cost. n.38/1973) e la Corte di Cassazione (Sentenza Corte Cass. n.2129/1975) – che tale diritto ha avuto un riconoscimento autonomo nel panorama costituzionale, in quanto ricondotto ai diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art.2 della Costituzione.

La disciplina del diritto alla privacy è molto recente: infatti è stata introdotta solo con il c.d. “Codice Privacy” (d.lgs.196/2003), e profondamente modificata sulla spinta comunitaria data dal GDPR (Regolamento UE 2016/679) dal d.lgs.101/2018 (adottato per l’adeguamento della normativa nazionale e del “Codice Privacy” a quella comunitaria).

Diritto di cronaca: informazione sui contagi

Il diritto alla privacy o alla riservatezza storicamente trova il suo contraltare proprio in un’altra libertà costituzionalmente garantita, cioè il diritto di cronaca che si fonda sull’art.21 della Costituzione, posto a tutela della libertà di opinione.

Tuttavia, il diritto di cronaca per essere lecito deve essere esercitato entro certi limiti, ed in particolare quello della:

  • continenza, consistente nell'uso di modalità espressive proporzionate, misurate e non offensive (caratteristica che spesso sui social purtroppo non si riscontra);
  • verità effettiva o quanto meno putativa della notizia, per cui colui che informa deve fare quanto meno indagini serie sulla veridicità di quanto pubblica;
  • pertinenza o utilità della notizia pubblicata per la collettività (es. a parità di fatto contenuto nella notizia, un conto è se esso riguardi un soggetto noto, altro conto è se riguardi uno sconosciuto).

Così come il diritto di cronaca può essere esercitato da chiunque, anche se non è un giornalista, ai limiti di cui sopra deve attenersi chiunque.

Diritto alla salute: ricostruire la catena dei contagi

A questo scontro ancestrale tra diritto alla riservatezza o privacy e diritto di cronaca, si aggiunge, nella situazione specifica dell’epidemia di coronavirus, il potenziale interesse della collettività a conoscere l’identità di coloro che sono stati colpiti dal coronavirus per sapere se vi sono entrati in contatto e prendere così le dovute precauzioni.

Anche la tutela della salute del singolo e della collettività trova un riconoscimento espresso nell’articolo 32 della Costituzione. A questo si ricollega sicuramente la necessità di salvaguardare il diritto alla vita dei singoli, che si pone sul gradino più alto del nostro sistema di diritti costituzionali.

Rimedi a tutela del diritto alla privacy

Coloro che sono stati lesi nel diritto alla privacy e alla riservatezza hanno due rimedi, non alternativi, che consistono nel reclamo presso il Garante per la Protezione dei Dati Personali e nel risarcimento dei danni.

Infatti, al Garante sono attribuiti poteri di indagine e correttivi, nonché di irrogazione delle (rilevanti) sanzioni amministrative previste per la violazione della normativa sulla privacy. La decisione del Garante può essere impugnata davanti al Giudice ordinario.

Tuttavia, il Garante per la Protezione dei Dati Personali non è competente a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento del danno conseguente alla violazione, che dovrà essere inoltrata al Giudice ordinario.

A tal proposito, la Corte di Cassazione ha attribuito la natura di “prova privilegiata” alla decisione del Garante (Cass. Civ. 13151/2017).

Il danno in ogni caso deve essere effettivo e va provato in giudizio.

Tra tutti i diritti di rango costituzionale in gioco, quale prevale?

La risposta ovviamente non è semplice, e deve essere data valutando attentamente l’importanza degli interessi in gioco e trovando un giusto contemperamento tra gli stessi.

Tale compito spetta allo Stato, il quale – al di là delle polemiche sulla scelta degli strumenti utilizzati, secondo alcuni non conformi a quelli consentiti dalla Costituzione - nel corso della pandemia Covid ha scelto di dare prevalenza al diritto alla salute, inteso soprattutto in senso collettivo, rispetto ad altre libertà fondamentali, come ad esempio quella di circolazione (art.16 Costituzione) e di libertà dell’iniziativa economica pubblica e privata (art.41 Costituzione), il diritto al lavoro in generale (art.4 Costituzione).

Si potrebbe pensare che se il diritto alla salute fosse considerato maggiormente meritevole di tutela rispetto al diritto alla riservatezza e alla privacy allora cadrebbero anche i dubbi sul diritto di cronaca, posto che quest’ultimo potrebbe ritenersi funzionale alla tutela della salute nel senso di individuare chi è stato contagiato dal coronavirus ed evitare di venirvi in contatto, oppure nel caso in cui il contatto vi sia stato nei 14 giorni precedenti chiedere accertamenti pur in assenza di sintomi e provvedere all’isolamento rispetto ai familiari, conviventi e non.

L'intervento del Garante Privacy

Il Garante Privacy già lo scorso 2 Marzo aveva ammonito tutti i soggetti pubblici e privati (es. datori di lavoro) sulla inopportunità di procedere al “fai-da-te” nella raccolta dei dati personali relativi a soggetti affetti da coronavirus, pur in presenza di interessi contrastanti che a prima vista potevano apparire validi.

È del 31 Marzo invece l’avviso del Garante delle denunce sulle violazioni della privacy perpetrate tramite social media da alcuni esponenti di Istituzioni locali e giornalisti (mediante il richiamo in quest’ultimo caso dell’art.10 delle “Regole deontologiche relative al trattamento di dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”), i quali avevano indicato non solo nomi e cognomi, ma anche indirizzi di residenza e finanche particolari dettagliati sulla situazione clinica dei soggetti colpiti da coronavirus.

Tale orientamento parrebbe avallato dalla scelta delle Autorità statali di consentire il trattamento (inteso come raccolta delle informazioni dei soggetti affetti da coronavirus, dei dati clinici e della loro rete di contatti) solo al personale sanitario, occupato a contrastare l’emergenza Covid-19.

Peraltro, nemmeno coloro che sono autorizzati a svolgere tale tipo di trattamento possono diffondere pubblicamente i dati sanitari raccolti, in quanto tale attività è volta a determinare le misure di contenimento del coronavirus nei confronti di coloro che sono risultati far parte “della filiera dei contatti stretti del soggetto risultato positivo al Covid-19”.

A maggior ragione, quindi, la libertà di disporre dei dati personali di soggetti affetti da coronavirus non pare potersi consentire al normale cittadino.



Chat su whatsapp: equiparate ai social?

Sicuramente vi è differenza tra una notizia pubblicata su un social network o genericamente sul web, destinata a maggior diffusione, rispetto alla confidenza sul vicino di casa, che si è scoperto aver contratto il coronavirus, fatta ad una cerchia ristretta di persone su una chat privata (quali whatsapp, messenger, telegram, ecc…).

Tuttavia, per inquadrare il fenomeno da un punto di vista tecnico-giuridico occorre partire da due presupposti:

  • il trattamento di quei dati personali è illecito perché non rispondente ai requisiti e agli interessi previsti dalla normativa sulla privacy;
  • per trattamento deve intendersi non solo la divulgazione ad una serie indeterminata di persone (“diffusione”) ma anche la “comunicazione”, cioè il riferire i dati personali a uno o più soggetti determinati diversi dall'interessato (art.2-ter “Codice Privacy”, così come modificato dal d.lgs.101/2018), come succede appunto nelle chat private.

A ciò si aggiunga che la facilità - e talvolta la superficialità - con cui oggi si utilizzano i mezzi di comunicazione potrebbe comportare la divulgazione sui social dell'informazione originariamente comunicata "in privato" via whatsapp o simili, con conseguenze ben più gravi per la lesione del diritto alla riservatezza.

Pertanto, bisogna prestare attenzione a ciò che si scrive sui profili social ma anche su su whatsapp e altre applicazioni di messaggistica, in quanto quelle comunicazioni che considerate magari normali e prive di conseguenze, potrebbero invece integrare degli illeciti amministrativi, civili e addirittura penali, caso quest'ultimo trattato dall'avvocato Roberto Tedesco nell'articolo su Covid e reato di procurato allarme.


Avvocato Caterina Martino Civilista a Firenze

Caterina Martino

Avvocato civilista a Firenze,

mi occupo in particolare di risarcimento danni, recupero crediti, Diritto del Lavoro e Diritto di Famiglia.

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