Diritto All'Oblio e Diritto Di Cronaca: Un Difficile Bilanciamento

Un dibattito rilevante ha ad oggetto il difficile bilanciamento tra il diritto all'oblio, inteso nel suo significato più ampio quale diritto del singolo di “essere dimenticato dal web” rispetto a vicende non più attuali e che compromettono in qualche modo il proprio percorso personale e professionale, da un lato, e il diritto di cronaca come diritto alla conservazione di materiale giornalistico per fini storici, dall’altro.

Tanto il diritto all'oblio che il diritto di cronaca sono tutelati da “fonti di rango costituzionale”: il primo è garantito dall’art. 2 della Costituzione, nonché dall’art. 8 della CEDU e recentemente riconosciuto espressamente dall’articolo 17 del Regolamento Europeo sulla protezione dati personali n. 679/16 (cd. GDPR), il secondo trova protezione nell’art. 21 della Costituzione e nell’art. 10 della CEDU.

Nel caso in cui si invochi il diritto all’oblio rispetto a notizie e/o contenuti veritieri, l’interessato non potrà chiederne la cancellazione dai siti sorgente, ma senza dubbio potrà chiederne la relativa deindicizzazione dai motori di ricerca.

Ma quanto tempo deve trascorrere affinchè si possa legittimamente esercitare il diritto all’oblio e chiedere la deindicizzazione?

La giurisprudenza su diritto all'oblio e deindicizzazione

Come affermato dalla nota sentenza “Google VS Spain” del 2014, che ha riconosciuto, di fatto, il diritto all’oblio, in generale, e come ribadito nei successivi provvedimenti del Garante della Privacy, la richiesta di deindicizzazione è legittima allorchè trattasi di notizie e/o comunque contenuti risalenti nel tempo, perché solo in questo caso il diritto all’informazione può ritenersi non più attuale. Diventa, allora, cruciale quantificare questo tempo affinché si possa ritenere legittima una richiesta di deindicizzazione.

Il primo Tribunale che si è pronunciato in merito è stato quello di Milano che ha stabilito che il decorso di quattro anni dalla chiusura di un’inchiesta giudiziaria possa legittimare l’esercizio del diritto all’oblio e fondare una richiesta di deindicizzazione (Tribunale di Milano, sentenza n. 3578 del 28.3.2018). Trattasi di un apprezzabile sforzo, ma è evidente che dare un rigido sbarramento temporale finisce per complicare l’attività di bilanciamento.

Del resto, ci sono ulteriori elementi da valutare: l’eventuale permanere della natura pubblica della carica ricoperta dall’istante, la sua qualità di personaggio pubblico, la tipologia e gravità del reato per cui si è stati condannati.

Sul punto, infatti, è doveroso chiarire che il diritto all’oblio può e deve coprire, sussistendone i presupposti, non solo vicende che hanno registrato un epilogo positivo per l’interessato (ad esempio, un’archiviazione, un’assoluzione o anche solo la rimessione in libertà), ma anche vicende che hanno avuto una conclusione infausta, quale la condanna e la detenzione, e ciò per una ovvia ragione: non si può rimanere perennemente sottoposti al giudizio dell’opinione pubblica per vicende obsolete per le quali il soggetto ha scontato il giusto debito con la società. In casi simili, si potrebbe parlare di “ergastolo digitale”.

Il Garante della Privacy sul diritto all'oblio

Sul tema, molto significativo per le ricadute future è il provvedimento del Garante della Privacy n. 153 del 24 luglio 2019, il quale ha affermato che il diritto all’oblio va riconosciuto anche a chi è stato riabilitato dopo una condanna e ha ordinato a Google la rimozione di due Url che rimandavano ad informazioni giudiziarie non più rappresentative della attuale situazione di un imprenditore.

Quest’ultimo aveva subito una sentenza di condanna nel 2010, per fatti del 2007, e nel 2013 aveva ottenuto la riabilitazione, della quale non veniva fatta menzione nei risultati indicizzati da Google a lui associati. Di qui l’impatto sproporzionato sui diritti dell’interessato, non bilanciato da un attuale interesse del pubblico a conoscere la vicenda, e quindi la fondatezza del reclamo.

Vero è che non tutti coloro che hanno commesso reati o comunque atti illeciti possono appellarsi al diritto all'oblio, chiedere la deindicizzazione ed essere “dimenticati” dalla Rete per il semplice decorso del tempo: se tuttavia ne ricorrono i presupposti richiesti dalla legge o comunque elaborati dalla giurisprudenza in senso maggioritario, questo diritto deve essere garantito e la richiesta di deindicizzazione accolta.

Il Garante della Privacy ha, infatti, stabilito che per reati particolarmente gravi prevale l’interesse del pubblico ad accedere alle notizie e pertanto in casi simili la richiesta di rimozione delle URL indicizzate da Google è inammissibile.

Tale principio è stato sancito nel provvedimento n. 152 del 31 marzo 2016 con il quale il Garante della Privacy ha dichiarato infondato il ricorso di un ex terrorista che chiedeva la deindicizzazione di alcuni articoli, studi, atti processuali in cui erano riportati gravi fatti di cronaca che lo avevano visto protagonista tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80.

La Cassazione sul diritto all'oblio

Sul tema del difficile bilanciamento tra diritto all’oblio, quale particolare connotazione del diritto alla riservatezza, e diritto di cronaca si sono pronunciate anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n° 19681 del 4 Giugno.2019.

La questione che è stata rimessa all’esame delle citate Sezioni Unite della Cassazione ha riguardato un cittadino italiano che si era visto rigettare la richiesta di rimozione di di un articolo online pubblicato da un quotidiano locale, il quale ripercorrendo vicende criminali del passato, nel menzionare anche quella che lo aveva visto protagonista, ma per la quale egli aveva già scontato una pena detentiva di 12 anni, lo aveva nuovamente esposto a clamore mediatico proprio nella fase delicata e difficile del proprio reinserimento nella vita sociale.

Le Sezioni Unite hanno precisato che nel caso in questione deve più correttamente parlarsi non tanto di diritto di cronaca, quanto di

"diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato".

Sezioni Unite della Corte di Cassazione - sentenza n° 19681 del 4 Giugno.2019

A risoluzione di tale questione, è stato affermato che il giudice di merito – ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a detta rievocazione, che è espressione della libertà di stampa – ha il compito di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono, loro malgrado, protagonisti.

Tale menzione deve ritenersi lecita solo se si riferisce a persone nei confronti delle quali sussista l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà sia per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza, a suo tempo legittimamente “compressa”, rispetto ad avvenimenti del passato che ne ledano la dignità e l’onore e dei quali può ritenersi ormai spenta la memoria collettiva.


Avvocato reputazione Piera Di Stefano

Piera Di Stefano

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